Molti lettori ricorderanno il caso dell’Islanda, la piccola isola che nell’estate del 2011 salì alla ribalta delle cronache internazionali per aver ridiscusso le sue trattative con il Fondo Monetario Internazionale. Proprio a metà settembre di due anni fa, la primo ministro islandese Jóhanna Sigurðardóttir annunciò, nel corso di una conferenza stampa, la partenza dei funzionari del FMI dal Paese. In Europa, e soprattutto in Italia, si scatenò un tripudio mediatico quasi senza precedenti che indicò nella rinegoziazione concordata tra il governo islandese e il FMI un atto rivoluzionario presumibilmente indotto dal referendum con cui la maggior parte dei cittadini della nazione insulare si erano espressi. In realtà quel referendum riguardava un solo aspetto all’interno degli adempimenti nei confronti della principale istituzione finanziaria internazionale del pianeta, ovvero la restituzione aggiuntiva dei debiti contratti da una compagnia bancaria privata islandese, la Icesave, con gli investitori stranieri. Il popolo islandese giustamente si oppose al riconoscimento di questa voce debitoria, che avrebbe chiaramente seguito il percorso del classico rimedio cui un certo sistema bancario irresponsabile ed un certo sistema industriale decotto amano ricorrere: privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Nella prima decade del XXI secolo, però, era stata proprio la Banca Centrale Islandese a gonfiare illusoriamente il volume finanziario nazionale, fissando tassi d’interesse altissimi per gli investitori stranieri e drogando un’economia ormai ben lontana dalle attività ittiche ed agricole cui l’immaginario collettivo era abituato a pensare di fronte alla piccola isola atlantica. Il crollo finanziario della Lehman Brothers innescò così un processo incontrovertibile che portò l’Islanda sull’orlo dell’autoimplosione economica.
Eppure negli accordi conclusi tra il governo islandese e il FMI durante il quadriennio 2008-2011 non c’è traccia di alcun “gran rifiuto” del sistema finanziario internazionale. A preoccupare la popolazione in quella fase era la perdita delle garanzie sociali di un Welfare contraddistinto da parametri di sviluppo e di benessere tra i più elevati al mondo. Il ministro dell’Economia e del Commercio Árni Páll Árnason aveva fatto riferimento proprio al rischio di una deflagrazione sociale del Paese nel caso in cui il FMI avesse imposto parametri di restituzione analoghi a quelli che aveva già messo in evidenza nel passato intervenendo sulle economie meno avanzate del Sud Est Asiatico o dell’America Latina(1). L’Islanda, spaventata, cercò così con decisione ed ostinazione una rinegoziazione degli accordi che convinse il FMI a garantire prestiti più accomodanti ad un Paese che oggi sta cercando di ristrutturare la sua economia attraverso una nuova fase di transizione concordata(2). Il clima politico nel Paese ad un anno e mezzo da quella momentanea “crisi diplomatica” è dunque ben lontano dai presunti scenari rivoluzionari che venivano contemporaneamente tratteggiati su alcuni giornali, siti e blog italiani. Eppure tutti cavalcarono quella notizia distorta e gonfiata: dalle fazioni radicali antagoniste a “Il Fatto Quotidiano”, fino agli immancabili Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che, proprio dalle colonne del giornale diretto da Antonio Padellaro e Marco Travaglio, scrissero: «L’Islanda è l’unica nazione che si è rifiutata di salvare le banche. In un primo momento, nel 2008, il suo governo nazionalizzò le banche fallite. Il debito creato da istituti privati sarebbe quindi finito sulle spalle dei cittadini, che si opposero. Venne allora indetto un referendum che bloccò la nazionalizzazione, riproposta però alcuni mesi più tardi dal ministro dell’Economia Steingrimur Sigfusson. Gli islandesi non salvarono le banche, pur sapendo di dover affrontare pesanti ritorsioni da parte dei paesi Ue che avrebbero perso i loro depositi, ma evitarono di svendere il loro paese e di metterlo sotto tutela del Fmi»(3).
Un tema fondamentale, come quello della sovranità politica dello Stato, fu per l’ennesima volta manipolato da slanci estremistici, pronti a distorcerne strumentalmente la portata per soddisfare le smanie complottiste dei più gretti sentimenti politici sciovinisti, micro-nazionalisti, malthusiani, ambientalisti o semplicemente qualunquisti. In realtà, ad una prima analisi di queste presunte e deficitarie ricostruzioni cronachistiche risultava evidente l’assenza di una benché minima disamina del contesto geopolitico, geoeconomico e geostrategico nel quale l’Islanda si muoveva e si muove. Inserita per oltre cinque secoli nel dominio del Regno di Danimarca, ancor prima della fine del Secondo Conflitto Mondiale, la nuova Repubblica islandese dichiarò la sua indipendenza dalla Corona di Copenaghen, ottenendo ben presto il riconoscimento dell’ONU nel 1946 e l’adesione alla NATO nel 1949, della quale l’Islanda è Paese membro fondatore, esattamente come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia o Italia. L’Islanda dal 1960 è inoltre membro dell’AELS (Associazione Europea di Libero Scambio), il gruppo che riunisce i Paesi europei esterni alla Comunità Economica Europea prima e all’Unione Europea poi, e dal 1994 ha aderito allo Spazio Economico Europeo. Proprio a partire dal 2009, la primo ministro Jóhanna Sigurðardóttir, espressione dell’Alleanza Socialdemocratica, ha voluto imprimere una sostanziale accelerazione al processo di adesione dell’Islanda all’Unione Europea facendo leva sulle difficili condizioni economiche in cui si trovava il Paese. Il 24 febbraio 2010 la Commissione Europea ha definitivamente accolto la richiesta di avvio dei negoziati affermando in una nota ufficiale: «L’Islanda condivide tanti valori dell’UE, come una democrazia solida e il rispetto dei diritti umani. In quanto Paese dello Spazio Economico Europeo, è anche già integrata nel mercato europeo e ha recepito gran parte della legislazione dell’UE»(4).
Proprio il 27 giugno 2011, cioè durante l’estate in cui – secondo il complottismo internauta – sarebbe cominciata la fantomatica rivoluzione islandese, hanno preso il via le discussioni nel quadro dell’acquis comunitario, ossia gli atti giurisprudenziali di verifica comparata dei requisiti politici, economici, amministrativi e giudiziari ai quali ogni singolo Paese che richieda l’integrazione nell’Unione Europea deve ottemperare(5). I lavori prevedono una fase di “screening”, cioè di prima verifica, e una fase di studio. Dei 33 capitoli complessivi sottoposti ad analisi, ben 27 hanno già passato la fase di prima verifica (tra i quali quello relativo al “Libero movimento delle merci”, quello al “Libero movimento dei lavoratori”, quello ai “Servizi finanziari”, quello all’“Impresa e politica industriale”, quello al “Controllo finanziario” e quello alle “Reti trans-europee”) e già 11 sono stati definitivamente chiusi tra il 2011 e il 2012. Soltanto nel gennaio di quest’anno, l’Islanda, in attesa del risultato delle prossime elezioni politiche previste ad aprile, ha deciso di congelare i negoziati di adesione per consentire al prossimo governo di riprendere pienamente in mano la situazione senza modifiche dell’ultimo momento.
Per quanto riguarda il sistema difensivo, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’Islanda ha definitivamente sposato una linea non-militarista, simile a quella adottata dalla Confederazione Elvetica, ma ha contestualmente preso parte alla fondazione della NATO, cedendo agli Stati Uniti – in base agli accordi di cooperazione del 1951 – la base militare di Keflavik, nella penisola sud-occidentale di Reykjanes, che durante la Guerra Fredda svolse un ruolo di elevata importanza nell’ambito del controllo e del monitoraggio marittimo dello spazio transatlantico. Basti pensare che alla fine degli anni Ottanta questa installazione militare ospitava 18 aerei intercettori F-15, 9 aerei per la sorveglianza marittima P-3, 2 aerei radar E-3 (AWACS), 1 aereo cisterna KC-135, più altri mezzi di supporto, oltre al personale di terra, le postazioni radar e gli scali a disposizione della Marina degli Stati Uniti(6). Non è casuale dunque che la Gran Bretagna decise di rinunciare alle sue pretese durante la cosiddetta “terza guerra del merluzzo” (1975) assecondando le richieste islandesi in materia di pesca, dinnanzi ad un governo locale che per ritorsione minacciava di chiudere la base di Keflavik e, dunque, di depotenziare notevolmente le capacità nordatlantiche di contenimento della flotta sottomarina sovietica(7). La base è stata chiusa soltanto nel 2006. Tuttavia l’Islanda, priva di un vero e proprio esercito e dotata solo di una guardia costiera composta da 130 uomini, tre unità per il pattugliamento munite di elicotteri, alcuni velivoli di supporto ed una base presso Reykjavik(8), resta saldamente un Paese membro dell’Alleanza Atlantica con prospettive di sviluppo militare non secondarie. La costruzione di uno strumento di difesa moderno rappresenta infatti un obiettivo di lungo termine molto dibattuto in patria, soprattutto alla luce dell’iter intrapreso dopo il 2006. Nel 2007, l’Islanda ha concluso un accordo con la Norvegia nel quadro della cooperazione contro il terrorismo internazionale, che consente ai velivoli militari di Oslo un occasionale utilizzo della base di Keflavik, mentre a partire dal 2006 il Ministero della Difesa islandese ha assunto un ruolo di direzione condiviso con US EUCOM in occasione della serie di esercitazioni denominate “Northern Viking”(9), finalizzate al miglioramento delle capacità aeronavali della NATO nella regione del Mare Artico, dove sempre più tese si fanno le dispute “petrolifere” tra Stati Uniti, Canada, Russia, Norvegia e una Groenlandia sempre più prossima alla completa indipendenza dalla Danimarca. Inoltre, nell’ambito del cosiddetto peacekeeping, diversi ufficiali di polizia, medici, ingegneri ed esperti civili islandesi hanno preso parte, tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, alle missioni SFOR (in Bosnia-Erzegovina e Macedonia), KFOR (Kosovo) e ISAF (Afghanistan).
In conclusione è chiaramente comprensibile come l’Islanda resti solidamente integrata nel sistema economico e difensivo euro-atlantico, quasi totalmente priva di veri e propri margini di autonomia a causa di una collocazione geografica e di una situazione interna evidentemente svantaggiose: l’isolamento nel cuore della regione settentrionale dell’Oceano Atlantico, la scarsa presenza di risorse naturali nel sottosuolo e le difficoltà economiche provocate dalla crisi finanziaria del 2008 hanno creato condizioni storico-politiche tali da rafforzare, e non certo scalfire, la tradizionale collocazione geopolitica e geoeconomica del Paese. Nessuno può certo prevedere cosa avverrà in futuro ma nel 2011 non vi fu alcuna rivoluzione. Questo possiamo dirlo.
NOTE:
1. ASI, Islanda: il Fondo Monetario Internazionale se ne va. Dopo circa tre anni, il Fondo Monetario Internazionale e l’Islanda prenderanno strade diverse, 28 agosto 2011.
2. Ibidem.
3. B. Grillo – G. Casaleggio, Raccontare l’economia per difendere i cittadini, da “Il Fatto Quotidiano” del 18 novembre 2011.
4. Commissione Europea, Islanda: OK!, nota ufficiale del 24 febbraio 2010.
5. Council of the European Union, Second meeting of the Accession Conference with Iceland at Ministerial level, Brussels, June 27th 2011.
6. (cfr.) Iceland, Nato and the Keflavik Base, a cura della Commissione Islandese di Sicurezza (Öryggismálanefnd), 1989.
7. “Now, the Cod Peace,” Time, June 14, 1976, p. 37.
8. G. Sardellone, Un’originale politica di sicurezza: il caso dell’Islanda, da “Informazioni della Difesa online”, a cura dello Stato Maggiore del Ministero della Difesa della Repubblica Italiana, 10 luglio 2012.
9. Ibidem.