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Channel: post-mubarak – Pagina 71 – eurasia-rivista.org
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CRISI IN COREA: LA PARTITA IN GIOCO

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Lo “stato di guerra” e lo sviluppo dell’armamento nucleare (definito da Kim Jong Un l’unico “deterrente” contro la guerra e pilastro su cui costruire “pace e prosperità”, quindi non un atto aggressivo, ma difensivo) dichiarato dal nord; l’intensificazione delle manovre militari congiunte sudcoreane-statunitensi. Queste sono in estrema sintesi le sporadiche notizie giunte ai media occidentali.

Ma la posta in gioco della nuova “guerra fredda” intercoreana sembra decisamente più corposa. Innanzitutto va sottolineato che anche gli analisti occidentali non registrano sostanziali movimenti di truppe del nord, tanto da far sembrare poco plausibile un’aggressione nordcoreana al sud e sembra che ci sia stata assicurazione in tal senso da alti esponenti dell’esercito a controparti cinesi. Quindi cosa si nasconde dietro alle dichiarazioni energiche del giovane leader Kim Jong Un? Principalmente una reazione alle manovre congiunte Seul-Washington Key Resolve e Foul Eagle, che prefigurano senza dubbio un atto di guerra (con tanto di proteste delle associazioni pacifiste e per l’Unificazione della penisola), visto che prevedono la mobilitazione di forze militari non indifferenti (oltre 45.000 soldati) a cui va aggiunto l’invio dei bombardieri F-22 Raptor nella penisola, e allo stesso tempo un segnale nei confronti di Cina e Russia, che in sede ONU avevano approvato le nuove sanzioni contro la RPDC, in seguito al lancio del missile balistico intercontinentale di inizio marzo. Un messaggio al mondo, sia agli alleati sia ai nemici, di un presidente giovane ma sicuramente non sprovveduto, come viene dipinto da Occidente, che in poco più di un anno ha saputo mantenere inalterato il complicato sistema di potere a Pyongyang, ottenendo la fiducia dei due grandi pilastri su cui si reggono il governo e la dottrina Songun: cioè Partito ed Esercito. Inoltre è il primo presidente nordcoreano che ha la prospettiva di muoversi in uno schema mondiale veramente multipolare: ciò a differenza del nonno, Kim Il Sung, che ha retto il paese durante la guerra fredda (è morto nel 1994) e del padre, Kim Jong Il, che è stato Presidente nell’epoca dell’unipolarismo e della “fine della storia”, dovendo subire anche la dura prova dell’“Ardua marcia”, cioè del periodo di crisi intensa dovuta alla caduta del socialismo reale e a catastrofi naturale (1994-2011). Il giovane Kim può contare su alleanze forti (considerando che Russia e Cina partecipano anche al BRICS e allo OCS) che si possono porre su un piano di parità con la potenza statunitense, già ammonita in merito a soluzioni unilaterali, oltre che su una serie di interlocutori in potente crescita economica e geostrategica, come Thailandia, Mongolia e Iran, che potrebbero fungere da forze di intermediazione nella disputa, e su una serie di “simpatizzanti antimperialisti” come Venezuela, Cuba e Siria che potrebbero movimentare non indifferenti “masse critiche” contro un’aggressione nei confronti dello stato socialista, principalmente nelle popolazioni latinoamericane e nel mondo arabo. A ciò va aggiunto un esercito (Chosŏn inmin’gun, l’Armata Popolare Coreana) che, nonostante debba pagare il fio nei confronti della controparte sudcoreana negli aspetti prettamente tecnologici, può contare su un’unità di intenti, su un numero di soldati che ne fa il quarto esercito al mondo (1 milione e 200 mila unità, con una riserva che si aggira attorno ai 4 milioni e mezzo di uomini), e su una conoscenza dell’ostico territorio della penisola e dei siti strategici su cui i servizi americani e sudcoreani sono in notevole difficoltà. C’è inoltre la consapevolezza di aver superato il periodo più duro e di ristrettezza economica e il paese è in progressivo sviluppo economico, verso una vera prosperità, magari guardando anche alle politiche di sviluppo portate avanti dalla Cina.

Nella prospettiva del potere nordcoreano quindi non manca la fiducia nella risoluzione positiva dell’annosa divisione forzata e antistorica della penisola coreana.

Va ricordato, in sede storici, che nella conferenza di Jalta la suddivisione del mondo voluta da USA e URSS non prevedeva la divisione della penisola coreana, che fu definita Stato “neutrale”. Solamente un colpo di mano statunitense contro le armate di Kim Il Sung, liberatore della Patria, privò il popolo coreano dell’effettiva unificazione, ponendo il confine al 38° parallelo per una semplice questione strategica.

Nella partita entrano di diritto i due alleati, nonché paesi confinanti, di Pyongyang: Cina e Russia. La Cina, in caso di conflitto, difficilmente potrebbe esimersi dall’intervento a favore del Nord. Ragioni storiche, culturali, ideologiche e geopolitiche sono tutte dalla parte di un’alleanza tra Pechino e Pyongyang. Tanto più che la Cina deve farsi “perdonare” almeno due scelte politiche che sono state vissute come una sorta di tradimento dal Partito del Lavoro di Corea: il riconoscimento di Seul e le recenti sanzioni in sede ONU (anche se è evidente che la scelta di Pechino era del tutto naturale nel momento in cui gli accordi a 6 erano stati violati). Ma la solidarietà con i “fratelli d’armi” nordcoreani non è mai venuta meno, e Pyongyang lo sa (non a caso il “viaggio di investitura” di Kim Jong Un è avvenuto in Cina). A sostegno di questa tesi è stato recentemente rimosso il vicedirettore del quotidiano della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, Deng Yuwen, fortemente critico verso Pyongyang.

Anche la Russia, pur non intervenendo direttamente nella disputa, avrebbe grosse problematiche a lasciare strada libera agli Stati Uniti nell’invasione del Nord, soprattutto considerando che con una presa di Pyongyang, le forze militari di Washington si troverebbero ad un tiro di schioppo da Vladivostok, completando di fatto quell’accerchiamento ad oriente che ha le sue roccaforti nell’Alaska, in Guam, nelle Hawaii, nel Giappone e a Seul e che ora trova un contenimento solo dalla presenza della RPDC e dalla fermezza cinese su Tibet e Xinjiang.

Ma in definitiva l’unico vero interlocutore che può sbloccare lo stallo sembra essere la Corea del Sud. È nota la posizione di Pyongyang, già proposta negli anni ’60 a Seul, con una straordinaria lungimiranza, da parte di Kim Il Sung: confederazione coreana dei due stati, con due sistemi distinti, ma pienamente democratici e soprattutto liberi da qualsivoglia presenza militare straniera e quindi sovrani. Se al nord la presenza straniera è ormai un lontano ricordo, al sud è ancora invadente la presenza americana (oltre 60.000 soldati e 19 installazioni militari). E a Seul sembra non ci sia la volontà di ottenere una vera sovranità. L’accordo fu anche posto sul tavolo delle trattative a fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, con la riduzione della presenza statunitense ad una sorta di “Guantanamo coreana”, cioè in una base extraterritoriale nel sud della penisola. Ma vuoi l’effimera crescita economica sudcoreana (effimera perché pompata a dismisura da investimenti speculativi statunitensi e spinta da un turbocapitalismo completamente estraneo alla storia coreana, tant’è che è sempre presente una forte critica sindacale e socialista a queste misure) e la presa di posizione di George Bush contro Pyongyang (inserita nell’Asse del male), pose fine al dialogo e all’apertura. Ma la partita sul tavolo è ancora attuale: avrà la Corea del Sud il coraggio di accettare l’unica strada percorribile per la riunificazione, abbandonando l’alleato (o per meglio dire, il sovrano) statunitense e incamminandosi nel percorso di sviluppo asiatico dettato dalla Repubblica Popolare Cinese?

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